Mi piace pensare che la montagna sia un riflesso di quello che sei in quel momento. Ci sono giorni in cui ti senti invincibile, in cui ogni cosa, ogni evento, accade e va come dovrebbe andare e sui sentieri ti senti volare; i piedi trovano l’appoggio migliore ad ogni passo e il respiro non va mai in affanno. Non credo sia un caso che durante questi giorni anche il resto vada bene. Ci sono poi le giornate dove non ti riesce nulla. Le salite sembrano insormontabili e le discese sono pronte a farti cadere, come se ti spingessero per terra. Il cuore batte velocemente anche sulle pendenze più morbide e i piedi non trovano mai un appoggio comodo. Se ci penso bene, questo accade sempre nelle giornate “no” e non credo sia una coincidenza.
L’esperienza che un ultra trailer fa della montagna può essere divisa, secondo me, in due momenti.
Da una parte c’è la solitudine del corridore d’alta quota, del trail runner, dall’altra l’appartenenza ad un gruppo in cui tutti conoscono e si riconoscono in tale solitudine. Cercherò di mostrare cosa ciascuna di queste facce significa per me e di come esse, volenti o nolenti, siano spesso presenti tra i miei pensieri, anche quando non sono in montagna.
La solitudine del trail runner
L’emozione di trovarsi completamente solo, dopo 13 ore di “corsa”, se così si può chiamare il cercare di mettere un piede davanti all’altro il più velocemente possibile, in mezzo ad un bosco con il sole che tramonta dietro la cima dove si era qualche ora prima è qualcosa di difficile da descrivere a parole. L’arrivo ormai è vicino, mancheranno sì e no una quarantina di minuti, e la voglia di smettere di muoversi è davvero tanta. Eppure, se da un lato c’è un’intrinseca volontà materiale di riposare, di sdraiarsi per terra e dormire, dall’altro c’è il desiderio, altrettanto forte, che questa avventura pazzesca non finisca mai. Ci si trova così in una tensione tra il passato e il futuro, nella quale è difficile rimanere su di sé e concentrarsi sul momento presente. Delle volte, però, la mente e il corpo ti fanno dei regali bellissimi e quella sera dello scorso luglio è stata una di quelle.
Erano diverse ore che camminavo da solo, incontrando solo corridori che andavano o troppo veloce o troppo piano per il mio ritmo.
Di pensieri, in 13 ore in cui si è vigili, se ne hanno tanti. Ci si fanno promesse, si risolvono problemi, si prendono decisioni e ci si lascia trasportare dal dialogo che l’anima fa con se stessa.
Anche per una persona che sta bene nei momenti di solitudine, come me, un’esperienza simile mette a dura prova la capacità di rimanere da soli. “Dopotutto, se non c’è nessuno che ci guarda a cosa serve fare tutta questa fatica?” è una domanda che, prima o poi, mi pongo sempre durante gli ultra trail e a cui non ho ancora trovato una risposta soddisfacente. Forse è proprio la consapevolezza che ci sono altre persone in grado di capire questa sensazione che mi riesce a dare la voglia di iscrivermi alla prossima gara e a quella dopo. Forse, se non fossi sicuro che anche chi mi sorpassa e chi riesco a superare prova ciò che sto sperimentando io, non mi metterei così tanto in gioco. Perchè di questo si tratta, di un gioco, giusto? Sì e no. Un gioco è qualcosa di divertente e un’ultra maratona a me non sembra affatto divertente. Magari lo è nei primi chilometri, in cui scambi qualche parola con il corridore vicino a te o all’arrivo, quando puoi abbracciare la persona a cui tieni di più.
Ma per la maggior parte del tempo, l’ultra trail è una lotta assieme a se stessi e contro se stessi. Consapevoli che saremo soli, saliamo sulle montagne per testare i nostri limiti e scendere con un fardello di emozioni che ci vorrebbero anni per raccogliere nel via vai della città.
La forza di un gruppo
Durante la gara sono solo, ma per tutti i mesi che portano al grande giorno posso contare su un grande gruppo di amici che condividono la mia stessa passione. Penso che la corsa sia uno sport tanto individuale, quanto di squadra. È facile crederlo soprattutto in inverno, quando il termometro mostra un bel “meno” davanti al numero e si deve comunque uscire per allenarsi, in modo da arrivare preparati alle prime competizioni in primavera. Il venerdì sera, in questo periodo, è un momento che aspetto con fervore, perchè si scopre chi sabato mattina sarà presente al solito posto per allenarsi e chi preferirà rimanere sotto le coperte.
Le corse fatte in compagnia sono tra le più belle che riesco a ricordare. Di fatto, il primo allenamento in montagna della mia vita è stato in gruppo e credo che sia stato ciò che ha fatto scoccare la scintilla. Le cime fanno meno paura quando si è insieme e i panorami condivisi lasciano sempre quel qualcosa in più.
La bellezza di far parte di una squadra si vede anche all’arrivo, quando l’ultimo viene festeggiato quanto il primo, se non di più. Sotto il tendone, alla fine di una competizione, si possono ascoltare storie molto diverse, con un unico filo conduttore: il viaggio.
Sotto un certo aspetto, l’ultra trailer non è molto altro se non un viaggiatore delle montagne, un corridore che punta al cielo per esplorare se stesso e le mille sfaccettature di un mondo che è molto più interessante visto dall’alto. La condivisione della propria esperienza è un modo per dar voce alla propria montagna, quella che si è vissuta nelle ore di corsa, ma è anche una possibilità di tirare le somme, di esprimere a parole le emozioni respirate e di comprendere a pieno ciò che l’esperienza ci ha realmente regalato. Sotto questo punto di vista, il gruppo è fondamentale, perchè è il veicolo con il quale riesco a fare chiarezza con me stesso e attraverso cui trovo il desiderio di allacciare nuovamente le scarpe.
Una breve conclusione
Ecco, questo è ciò di cui parlo quando parlo di montagna. Un discorso che potrebbe durare un libro intero come perdersi nel rumore silenzioso del respiro affannato di chi, mentre scrivo, è sui sentieri a vivere quello che vivo io.
di Daniel Zanatta