Raccontare che cosa sia la Bolivia, può risultare un po’ difficile a parole. Questo essenzialmente per due motivi. In primo luogo, perchè il modo in cui ci esprimiamo implica una visione del mondo che non si può applicare alla filosofia di vita che permea il Sud America. In altre parole, mancano i vocaboli per descrivere quella che è una popolazione “lenta”. In secondo luogo, perchè le parole, anche se le avessimo, non basterebbero a dipingere le immagini che si possono incontrare durante la permanenza in questo paese.
Ma quindi, come possiamo rapportarci con un’esperienza di viaggio in un ambiente così diverso dal nostro?
Forse, cominciando dalla prima cosa che si nota una volta atterrati: la lentezza della Bolivia.
Con “lenta”, non si vuole intendere un dispregiativo, una mancanza, l’assenza di quella inerzia al “fare” tanto elogiata nella cultura occidentale. Certamente, è vero che non si nota la frenesia del quotidiano via vai che si può apprezzare in città come Milano, Roma e New York, tanto per dirne alcune, ma la lentezza a cui si fa riferimento è ben diversa.
Si tratta, essenzialmente, dell’adesione ad uno stile di vita a 360 gradi. Qualcuno potrebbe chiamarla la filosofia del “lo faccio domani”, ma a nostro modo di vedere cadrebbe in errore. Piuttosto, si può dire che il modus vivendi boliviano sia più sui canoni del “lo faccio a modo mio, quando voglio io e con il mio ritmo”. Insomma, in un paese considerato a tutti gli effetti del terzo mondo, è popolare un’accezione di vita simile, per certi versi, a quella più propriamente zen dei paesi indiani. Per molti altri fattori, però, le similitudini finiscono qui.
Dunque, in questo breve racconto delle idee che stanno dietro alla Bolivia, prenderemo in considerazione le due città più importanti: Sucre e La Paz. Per capirci meglio, è un po’ come se stessimo parlando di Milano e Roma, ovviamente con le opportune differenze. È proprio dalla capitale che ha inizio il nostro viaggio.
La Paz è una città che incute timore, specialmente se vista per la prima volta a mezzanotte dopo un viaggio di oltre 24 ore. L’aeroporto dista diversi chilometri dal centro cittadino, il quale è situato in una conca naturale. Ecco, si può dire che la capitale boliviana incarni molto bene i concetti di centro e periferia. In mezzo, nell’occhio del ciclone urbano, stanno i ricchi, i potenti e le famiglie “buone”. Sul bordo, come se spinti verso i monti dalla ricchezza e dallo sfarzo architettonico degli hotel a 5 stelle, si trovano i più deboli. El Alto, così è chiamata la periferia di La Paz.
Per capire questo fenomeno, lo si può pensare come una sorta di città al di fuori della città.
Se in mezzo si respira un’aria molto simile a quella che si può trovare nelle più vivaci città europee, con qualche profumo un po’ più speziato e qualche mercato “macabro” in più chiaramente, ciò che si vive tra le vie di El Alto è qualcosa di ignoto. Ignoto sia perchè non essendo consigliata la visita ci si è astenuti dall’entrarvi, sia per via del look che la periferia offre dall’esterno. Palafitte di fango, una accostata all’altra, una sopra l’altra, una sotto l’altra. Fango ovunque. Sulle strade, sui tetti, sulle recinzioni. El Alto, pensandoci bene, è un po’ come un gigantesco castello di sabbia. E per quanto suggestiva possa essere, la sabbia non è di certo conosciuta per la sua solidità. Non capita di rado, infatti, che con le piogge torrenziali, che spesso interessano La Paz, alcune di queste palafitte inizino a sciogliersi verso la valle. Si tratta di un fenomeno tanto spiacevole quanto inconcepibile per gli occhi di chi, come noi, è abituato a rigorosi controlli architettonici e da palazzi edificati sotto strette misure di sicurezza. La mattina, però, La Paz è tutta un’altra cosa.
Con il sole ben alto nel cielo, si respira un’aria completamente diversa. Vuoi la stanchezza del viaggio, vuoi l’arrivo a tarda notte in un paese completamente sconosciuto, la prima impressione non è la migliore che si possa avere. Nulla che non possa essere sovvertito con qualche ora di sonno.
Al risveglio, si trova una città piena di vita, dove tutto scorre “normalmente”. Il timore lascia spazio alla curiosità e, a fatica per via dell’altitudine, si muovono i primi passi nel centro cittadino. Strade e stradine si intersecano a formare una fitta rete urbana, adornata dai colori di stoffe e spezie. Il suono delle strade più trafficate si mescola, di tanto in tanto, alle melodie prodotte da piccoli strumenti a corda, suonati un po’ ovunque nella capitale. El Alto tiene ci tiene d’occhio dal sopra, ma con qualche sforzo si riesce a dimenticarsi della parte più cupa di La Paz. Questa, in poche parole, è la capitale boliviana.
Poi viene Sucre, la città “dolce”. Un volo turbolento collega le due città, ma una volta atterrati le sensazioni sono completamente diverse. Sarà per la sua collocazione geografica, sarà per l’assenza di una città sopra la città, Sucre dona un’aria un po’ più tranquilla ai suoi ospiti. Forse, se non si facesse tappa a La Paz e si arrivasse direttamente a Sucre, l’impressione sarebbe meno confortante. Una delle cose che impressiona di tutta la Bolivia e che è particolarmente evidente nella città dolce, sta nella disparità sociale che permea le aree urbane.
Se a La Paz ricchi e poveri erano separati anche geograficamente, qui non accade la stessa cosa. Tassisti ed imprenditori vivono fianco a fianco talvolta. Tuttavia, se la divisione non c’è a livello urbano, sarebbe sciocco negare che si respira un’aria di sdegno nei confronti della classe operaia povera. Si è installata una gerarchia sociale che difficilmente viene superata dai rapporti umani, spesso assenti tra persone dal patrimonio differente. Uno dei punti di raccoglimento di Sucre è il cosiddetto Parco Centrale. Collocato nel cuore della città, offre un luogo di incontro per i giovani e i meno giovani. Da lì la città è a portata di gambe e nel giro di qualche ora si può girare un po’ tutto il centro urbano. Ristoranti, negozi e bancarelle condiscono l’atmosfera con il classico tocco sudamericano che si vede nei film.
Sucre e La Paz, due città diverse dunque. Entrambe, però, legate da un filo conduttore comune: la lentezza. Una lentezza che, una volta tornati, è impossibile non portare con sé. Dopo aver visto “com’è dall’altra parte”, un po’ ci si affeziona e il rientro alla quotidianità occidentale sembra pesante da sopportare.
Alla lentezza ci si abitua in fretta, ma è alla velocità che non ci si abitua mai.
Racconto di Daniel Zanatta
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